Carlo Maria Alciati-Valperga Capo di 1a classe
Il racconto di un piemontese
“Ci trovavamo a l’esercitazion presso l’Isoletta, un camp de tir abbandonà ma d’novamente adoperà per permetter ai nostri incursor de far pratica, lontan da sgüard interessà.
Tutt procedeva com per una vera mission: spetavam la nott e al bugh, fidandoci mach de qualch fanal elettric, sollevavam i siluri sul pont per po’ farli scivolar nei cilindr ermetic. Una manovra semplice a dirse ma complicà nell’esecuzion, sti mostr pesavan un sacr di Dio… non per gnente qualchedun già i aveva battezzà “maiali”, dàa la lor mole e peso!
Quand partivam per una mission de combat, muovevam subit per esser in posizion d’attacco la notte dop. Se rivevam de di, dovevam ammucciarcen sul fondo e spettar che passasse il tramont. Durante l’esercitazion, invece, bastavan un coppi d’ore de navigazion per raggiunger l’Isoletta, un trasferiment che succedeva sempre in immersion lenta per affrontar l’impresa col giust spirito. Vers le tre rivevam vicin a l’obiettiv e mettevam i maiali in acqua. Un vecchio mercantile, che l’avevam soprannominato Winston in onor del signor Churchill che tant ci temea, fungìa da bersagli, attentamente sorvegliato dai Marò incaricati de coglier de sorpresa i nostri in avvicinament. A protegger “il pollaio” c’eran due rete antisiluro, uguali a quelle provate dai nostri ad Alessandria, posizionate a cent metri dal bersagli. Vint sigarette facevan il premio per chi riusciva a posizionar le “pillole” sotto la chiglia o per chi riusciva a impidirglielo.
Ma quella era una notte troppo oscura e tempestosa, scenari perfett disegnà per gli attaccant che sott’acqua, a cinq metri de fond, ammuccià da na pioggia fitta ideala per ocultar scie e bolle d’aria indesiderà, avrebben sicurament avù la meglio. E quell già si eran divisi il premio a briscola! Fu alora che il Comandant tirò fòra un di suoi sistemi per rend la partita più interessant e com comitato d’accoglienza mandò un par d’incursor dell’altra squadra sott’acqua a far la guardia, in spetta di lor colleg, per ostacolarli, anche a pugni sott’acqua, dal compir indisturbà il lor dover.
Ciò ch’è capità in quella nott de tempèsta non s’è mai capì fino in fondo. Sta di fatt che nella confusione un dii siluri sbandò addosso a chi s’era ocupà dell’aggancio della testata esplosiva a le alette della chiglia, risultand in una gamba maciullà. Eravam a doe ore de navigazion veloce dalla base, il ciel si presentava come l’inferno e il mar non era da meno, un purgatorio, con l’impossibilità de muoversi in superficie. Il ferito, pallid come un lenzuol slavà, aveva già gli occhi infossà e le labbra esangui. Con l’arteria femorale che non smetteva de sputar sangue, era lì davanti a noi che rendeva l’anima come un cane. Era necessario intervenir chirurgicamente sul momento, o quella sarebbe stata la sua ultima ora. Dalla base ci informaron che sarebbe stat invià un Cant, ma il Comandante era scettico e scotend la testa esprimeva forti dubbi, convint che nessun avrebbe preso il volo con un tempo così avverso e ancor meno gli sarebbe stat possibile effettuar un ammaraggio.
E invece, all’alba flagellà da un vento malign, nel mur de nùvole compatte che pareva il fianc d’una montagna, s’era aperta una spaccatura e da lì, tra nùvola e nùvola, s’insinuò un picciol aeroplano d’argento. Contra il ciel nero come mach il diavol può esser, i raggi del sol rifless su d’un’ala forgia da l’om, quel segno luminos ci apparì come un angelo, una vision mistica che ancora oi mi conferisce un sens del divino. Anche per le dure pellacce degli incursor fu un spettacol da mettersi sull’attenti. Con doe giri sopra de noi, lanciò segnali luminos per evitar de incappar in qualche contraerea troppo nervosa e poi lo vedemmo allinearsi con le onde, abbassarsi e planar con la maestrìa d’un gabbian, sfidand un vento laterale capace de spostar una corazzata, per poi posarsi come se nulla fosse più semplice sull’onda giusta. A un marinaio sfuggì un sospir: “Mamma mia!”
Completà la pratica d’ammaraggio, dand e togliend potenza al motor, l’idrovolant si girò vers di noi e con una sgasata final si accostò con un balz al molo. Mentr che si sollevava e abbassava sulle onde, si aprì sul fianc oscillant un portellon e la vista d’un giovan sorrident ci fè segno. M’è restà impress quel nom scrit in bianc e di travers sulla coda: “mammaiuto”.
Sotto ‘l diluvi e la cappa d’un ciel di piombo che pariva volerci schiacciar, lanciam una scialuppa che pigliò a bordo il ferito e l’infermier, avvoltolà al meglio possibile nelle cerate. Al momento del congedo, un pachetto di Milit fu lancià attraverso ‘l portellon, omaggio della marina al coraggio dei cavalièr dei cieli! Il Cant virò, aumentò la potenza e con l’elica che si scontrava rabbiosa con l’onde creand zampilli altissimi, dopo alcuni tentativi angosciosi, abbassò la coda per arrampicarsi sull’onda che docile come un mulo lo riportò in alto e riuscì a decollar. Tutti trattenemmo il fiato per i malcapitati passeggeri, uno dei qual gravemente ferito, sbalottà nel ventre di quel delfino danzante tra le onde. Poi fu un rombo che ora brontolava tranquillo sul fragor della pioggia e un puntino che si dissolse nelle nuvole oscure.
Eram lì, sul molo, zuppi fin a l’osse. Una preghiera per il compagn ferito, un ringraziamento agli angeli che eran venuti in suo soccorso. Qualcun fece girar le sigarette.
Eran dunque lor, quelli de “mammaiuto”.
Noi eravam i temerari che si nascondevan per sorprender il nemico e ucciderlo a tradimento, eroi valoros pronti a brandir le armi senza misericordia. Ma se ci trovavam in mezzo al mar, galleggiando inermi su quel deserto d’acqua, il cuor si faceva subit tenero e, nel delirio della sete e della fin imminente, anche i più duri tra noi avrebben invocato l’aiuto della madre. E annunzià dal suo motor, canto de speranza che ogni marinar in pericolo sogna d’udir, sarebbe rivaì il “mammaiuto”, nobile gabbian che instancabil, dopo aver cercà per ore in mezzo a chilometri e chilometri de solitario spazio e i rifless de un mar infinito e abbacinante, ci avrebbe scortà, piccoli punti nel nulla, a sbatter le braccia con le ultime forze rimaste. E ci avrebbe salvà.”

Carlo Maria Alciati-Valperga Capo di 1a classe - Squadratlantica

(ITA)
Ci trovavamo all’esercitazione presso l’Isoletta, un campo di tiro abbandonato ma nuovamente utilizzato per permettere ai nostri incursori di fare pratica, lontano da sguardi interessati. Tutto procedeva come per una vera missione: attendevamo la notte e al buio, fidandoci solo di qualche fanale elettrico, sollevavamo i siluri sul ponte per poi farli scivolare nei cilindri ermetici. Una manovra semplice a dirsi ma complicata nell’esecuzione, questi mostri pesavano un sacro Dio… non per nulla qualcuno già li aveva battezzati “maiali”, data la loro mole e peso!
Quando partivamo per una missione di combattimento, muovevamo immediatamente per essere in posizione di attacco la notte successiva. Se arrivavamo di giorno, dovevamo nasconderci sul fondo e attendere che passasse il tramonto.
Durante l’esercitazione, invece, bastavano un paio d’ore di navigazione per raggiungere l’Isoletta, un trasferimento che avveniva sempre in immersione lenta per affrontare l’impresa con il giusto spirito.
Verso le tre giungevamo vicino all’obiettivo e mettevamo i maiali in acqua. Un vecchio mercantile, che avevamo soprannominato Winston in onore del signor Churchill che tanto ci temeva, fungeva da bersaglio, attentamente sorvegliato dai Marò incaricati di cogliere di sorpresa i nostri in avvicinamento.
A proteggere “il pollaio” c’erano due reti antisiluro, identiche a quelle assaggiate dai nostri ad Alessandria, posizionate a cento metri dal bersaglio. Venti sigarette facevano il premio per chi riusciva a posizionare le “pillole” sotto la chiglia o per chi riusciva a impedirglielo.
Ma quella era una notte troppo oscura e tempestosa, scenario perfettamente disegnato per gli attaccanti che sott’acqua, a cinque metri di profondità, nascosti da una pioggia fitta ideale per occultare scie e bolle d’aria indesiderate, avrebbero sicuramente avuto la meglio. E quelli già si erano divisi il premio a briscola!
Fu allora che il Comandante tirò fuori uno dei suoi sistemi per rendere la partita più interessante e come comitato di accoglienza inviò un paio di incursori dell’altra squadra sott’acqua a far la guardia, in attesa dei loro colleghi, per ostacolarli, anche a pugni subacquei, dal compiere indisturbati il loro dovere.
Ciò che accadde in quella notte di tempesta non s’è mai capito. Sta di fatto che nella confusione uno dei siluri sbandò addosso a chi si stava occupando dell’aggancio della testata esplosiva alle alette della chiglia, risultando in una gamba maciullata.
Eravavamo a due ore di navigazione veloce dalla base, il cielo si presentava come l’inferno e il mare non era da meno, un purgatorio, con l’impossibilità di muoversi in superficie. Il ferito, pallido come un lenzuolo slavato, aveva già gli occhi infossati e le labbra esangui. Con l’arteria femorale che non smetteva di sputare sangue, era lì davanti a noi che rendeva l’anima come un cane. Era necessario intervenire chirurgicamente sul momento, o quella sarebbe stata la sua ultima ora.
Dalla base ci informarono che sarebbe stato inviato un Cant, ma il Comandante era scettico e scuotendo la testa esprimeva forti dubbi, convinto che nessuno avrebbe preso il volo con un tempo così avverso e ancor meno gli sarebbe stato possibile effettuare un ammaraggio.
E invece, all’alba flagellata da un vento maligno, nel muro di nuvole compatte che sembrava il fianco di una montagna, si era aperta una spaccatura e da lì, fra nuvola e nuvola, si insinuò un piccolo aeroplano d’argento. Contro il cielo nero come solo il diavolo può essere, i raggi del sole riflessi su di un’ala forgiata dall’uomo, quel segno luminoso ci apparve come un angelo, una visione mistica che ancora oggi mi conferisce un senso del divino. Anche per le dure pellacce degli incursori fu uno spettacolo da mettersi sull’attenti.
Dopo due giri sopra di noi lanciò segnali luminosi per evitare di incappare in qualche contraerea troppo nervosa e poi lo vedemmo allinearsi con le onde, abbassarsi e planare con la maestria di un gabbiano, sfidando un vento laterale capace di spostare una corazzata, per poi posarsi come se nulla fosse più semplice sull’onda giusta.
A un marinaio sfuggì un sospiro: “Mamma mia!”
Completata la pratica di ammaraggio, dando e togliendo potenza al motore, l’idrovolante si girò verso di noi e con una sgasata finale si accostò al molo. Nel mentre che si sollevava e abbassava sulle onde, si aprì sul fianco oscillante un portellone e la vista di un giovane sorridente ci fece segno. Mi è rimasto impresso quel nome scritto in bianco e di traverso sulla coda: “mammaiuto”.
Sotto il diluvio e la cappa di un cielo di piombo che sembrava volerci schiacciare, lanciammo una scialuppa che prese a bordo il ferito e l’infermiere, avvoltolati al meglio possibile nelle cerate. Al momento del congedo, un pacchetto di Milit fu lanciato attraverso il portellone, omaggio della marina al coraggio dei cavalieri dei cieli!
Il Cant virò, aumentò la potenza e con l’elica che si scontrava rabbiosa con l’acqua creando zampilli altissimi, dopo alcuni tentativi angosciosi, abbassò la coda per arrampicarsi sull’onda che docile come un mulo lo riportò in alto e riuscì a decollare. Tutti trattenemmo il fiato per i malcapitati passeggeri, uno dei quali gravemente ferito, sbalottati nel ventre di quel delfino danzante tra le onde. Poi fu un rombo che brontolava tranquillo sul fragore della pioggia e un puntino che si dissolse nelle nuvole oscure.
Eravamo lì, sul molo, zuppi fino alle ossa. Una preghiera per il compagno ferito, un ringraziamento agli angeli che erano venuti in suo soccorso. Qualcuno fece girare le sigarette.
Erano dunque loro, quelli del “mammaiuto”.
Noi eravamo i temerari che si nascondevano per sorprendere il nemico e ucciderlo a tradimento, eroi valorosi pronti a brandire le armi senza misericordia. Ma se ci trovavamo in mezzo al mare, galleggiando inermi su quel deserto d’acqua, il cuore si faceva subito tenero e, nel delirio della sete e della fine imminente, anche i più duri tra noi avrebbero invocato l’aiuto della madre. E annunciato dal suo motore, canto di speranza che ogni marinaio in pericolo sogna di udire, sarebbe arrivato il Cant, il “mammaiuto”, nobile gabbiano che instancabile, dopo aver cercato per ore in mezzo a chilometri e chilometri di solitario spazio ed i riflessi di un mare infinito ed abbacinante, ci avrebbe scorto, piccoli punti nel nulla, a sbattere le braccia con le ultime forze rimaste. E ci avrebbe salvato.

(ENG)
We were at a drill at Isoletta, an abandoned shooting range now reused to allow our commandos to practice away from prying eyes. Everything proceeded as for a real mission: we waited for night and in the dark, trusting only a few electric lanterns, we lifted the torpedoes onto the deck before sliding them into the hermetic tubes. A simple maneuver in words but complicated in execution, these beasts weighed a ton… it’s no wonder someone had already nicknamed them “pigs,” given their size and weight! When we set off for a combat mission, we immediately moved to be in attack position the following night. If we arrived during the day, we had to hide at the bottom and wait for sunset. During the drill, instead, a couple of hours of navigation were enough to reach Isoletta, a transfer that always took place in slow immersion to face the endeavor with the right spirit. Around three, we arrived near the target and put the pigs in water. An old merchant ship, which we had nicknamed Winston in honor of Mr. Churchill who feared us so much, served as a target, carefully watched by Marines tasked with catching our approaching men by surprise. To protect “the henhouse,” there were two torpedo nets, identical to those we had tasted in Alexandria, positioned a hundred meters from the target. Twenty cigarettes were the reward for those who managed to place the “pills” under the keel or for those who managed to prevent it. But that was a night too dark and stormy, a scenario perfectly designed for the attackers who underwater, at five meters deep, hidden by a thick rain ideal for concealing unwanted trails and air bubbles, would surely have the upper hand. And they had already split the prize in a game of briscola! It was then that the Commander pulled out one of his systems to make the game more interesting and as a welcome committee sent a couple of raiders from the other team underwater to stand guard, waiting for their colleagues, to hinder them, even with underwater fists, from performing their duty undisturbed. What happened on that stormy night was never understood. The fact remains that in the confusion one of the torpedoes swerved onto the one who was taking care of hooking the explosive head to the keel fins, resulting in a crushed leg. We were two hours of fast navigation from the base, the sky looked like hell, and the sea was no better, a purgatory, with the impossibility of moving on the surface. The injured man, pale as a faded sheet, already had sunken eyes and bloodless lips. With the femoral artery that wouldn’t stop spouting blood, he was there in front of us giving up his soul like a dog. It was necessary to intervene surgically on the spot, or that would have been his last hour. The base informed us that a Cant would be sent, but the Commander was skeptical and shaking his head expressed strong doubts, convinced that no one would take off in such adverse weather and even less would it be possible to perform a water landing. And yet, at dawn lashed by an evil wind, in the wall of dense clouds that seemed like the side of a mountain, a crack opened up and from there, between cloud and cloud, a small silver airplane slipped through. Against the sky as black as only the devil can be, the sun’s rays reflected on a man-made wing, that bright sign appeared to us as an angel, a mystical vision that still today gives me a sense of the divine. Even for the tough skins of the raiders, it was a spectacle to stand at attention. After two laps above us, it launched light signals to avoid running into any too nervous anti-aircraft and then we saw it align with the waves, lower itself, and glide with the mastery of a seagull, challenging a side wind capable of moving a battleship, to then land as if nothing could be simpler on the right wave. A sailor let out a sigh: “Mamma mia!”
Once the water landing was completed, giving and taking power from the engine, the seaplane turned towards us and with a final rev approached the pier. As it rose and fell on the waves, a door on the swinging side opened and the sight of a smiling young man signaled to us. I was struck by that name written in white and diagonally on the tail: “mammaiuto.” Under the downpour and the leaden sky that seemed to want to crush us, we launched a lifeboat that took on board the injured and the nurse, wrapped as best as possible in oilskins. At the moment of departure, a pack of Milit was thrown through the door, a tribute from the navy to the courage of the knights of the skies! The Cant turned, increased the power, and with the propeller clashing angrily with the water creating very high sprays, after some anguished attempts, lowered the tail to climb on the wave that docile as a mule brought it back up and managed to take off. We all held our breath for the unfortunate passengers, one of whom was seriously injured, tossed in the belly of that dolphin dancing among the waves. Then it was a rumble that grumbled quietly over the roar of the rain and a dot that dissolved into the dark clouds. We were there, on the pier, soaked to the bones. A prayer for the wounded comrade, a thank you to the angels who had come to his rescue. Someone passed around the cigarettes.
So, they were the ones from “mammaiuto.”
We were the daredevils who hid to surprise the enemy and kill him by betrayal, valorous heroes ready to wield weapons without mercy. But if we found ourselves in the middle of the sea, floating helplessly on that water desert, the heart immediately became tender and, in the delirium of thirst and the imminent end, even the toughest among us would have called for the help of mother. And announced by its engine, a song of hope that every sailor in danger dreams of hearing, the Cant, the “mammaiuto,” a noble seagull that tirelessly, after searching for hours amidst kilometers and kilometers of lonely space and the reflections of an infinite and dazzling sea, would have spotted us, small points in the nothingness, flapping our arms with the last remaining strength. And it would have saved us.

(FRA)
Nous étions à l’exercice près de l’Isolette, un champ de tir abandonné mais à nouveau utilisé pour permettre à nos commandos de s’entraîner, loin des regards curieux. Tout se déroulait comme pour une vraie mission : nous attendions la nuit et, dans l’obscurité, ne nous fiant qu’à quelques lampes électriques, nous soulevions les torpilles sur le pont pour ensuite les faire glisser dans les cylindres hermétiques. Une manœuvre simple en théorie mais compliquée dans l’exécution, ces monstres pesaient un véritable dieu… ce n’est pas pour rien que certains les avaient déjà baptisés “cochons”, vu leur taille et leur poids ! Lorsque nous partions pour une mission de combat, nous nous déplacions immédiatement pour être en position d’attaque la nuit suivante. Si nous arrivions de jour, nous devions nous cacher au fond et attendre que le soleil se couche. Pendant l’exercice, cependant, quelques heures de navigation suffisaient pour atteindre l’Isolette, un transfert qui se faisait toujours en immersion lente pour aborder l’entreprise avec le bon esprit. Vers trois heures, nous arrivions près de l’objectif et mettions les cochons à l’eau. Un vieux cargo, que nous avions surnommé Winston en l’honneur de M. Churchill qui nous craignait tant, servait de cible, surveillé attentivement par les Marines chargés de surprendre nos hommes à l’approche. Pour protéger “le poulailler”, il y avait deux filets anti-torpilles, identiques à ceux que nous avions testés à Alexandrie, positionnés à cent mètres de la cible. Vingt cigarettes faisaient le prix pour celui qui réussissait à placer les “pilules” sous la quille ou pour celui qui réussissait à l’en empêcher. Mais cette nuit était trop sombre et orageuse, un scénario parfaitement dessiné pour les attaquants qui, sous l’eau, à cinq mètres de profondeur, cachés par une pluie dense idéale pour masquer les traînées et les bulles d’air indésirables, auraient certainement eu le dessus. Et ceux-ci avaient déjà partagé le prix à la briscola ! C’est alors que le Commandant sortit l’un de ses systèmes pour rendre la partie plus intéressante et, comme comité d’accueil, envoya un couple de commandos de l’autre équipe sous l’eau pour faire la garde, en attendant leurs collègues, pour les empêcher, même à coups de poing sous-marins, de accomplir leur devoir sans être dérangés. Ce qui s’est passé cette nuit d’orage n’a jamais été compris. Le fait est que dans la confusion, l’une des torpilles a dévié sur celui qui s’occupait de fixer la tête explosive aux ailettes de la quille, résultant en une jambe écrasée. Nous étions à deux heures de navigation rapide de la base, le ciel ressemblait à l’enfer et la mer n’était pas en reste, un purgatoire, avec l’impossibilité de se déplacer en surface. Le blessé, pâle comme un drap délavé, avait déjà les yeux creusés et les lèvres pâles. Avec l’artère fémorale qui ne cessait de cracher du sang, il était là devant nous, rendant son âme comme un chien. Il était nécessaire d’intervenir chirurgicalement sur le moment, ou ce serait sa dernière heure. La base nous a informés qu’un Cant serait envoyé, mais le Commandant était sceptique et, secouant la tête, exprimait de sérieux doutes, convaincu que personne ne prendrait l’avion avec un temps aussi adverse et encore moins il aurait été possible d’effectuer un amerrissage. Et pourtant, à l’aube flagellée par un vent malin, dans le mur de nuages compacts qui semblait le flanc d’une montagne, une fissure s’ouvrit et de là, entre nuage et nuage, se glissa un petit avion d’argent. Contre le ciel noir comme seul le diable peut l’être, les rayons du soleil réfléchis sur une aile forgée par l’homme, ce signe lumineux nous apparut comme un ange, une vision mystique qui me confère encore aujourd’hui un sens du divin. Même pour les durs à cuire des commandos, ce fut un spectacle à se mettre au garde-à-vous. Après deux tours au-dessus de nous, il lança des signaux lumineux pour éviter de tomber sur une quelconque DCA trop nerveuse et puis nous le vîmes s’aligner avec les vagues, s’abaisser et planer avec la maîtrise d’un goéland, défiant un vent latéral capable de déplacer un cuirassé, pour ensuite se poser comme si rien n’était plus simple sur la bonne vague. Un marin laissa échapper un soupir : “Mamma mia !”
Une fois l’amerrissage terminé, en donnant et en retirant de la puissance au moteur, l’hydravion se tourna vers nous et, avec une accélération finale, s’approcha du quai. Pendant qu’il se soulevait et s’abaissait sur les vagues, une porte sur le côté oscillant s’ouvrit et la vue d’un jeune souriant nous fit signe. Ce nom restait gravé en moi, écrit en blanc et de travers sur la queue : “mammaiuto”. Sous le déluge et la cape d’un ciel de plomb qui semblait vouloir nous écraser, nous lançâmes une chaloupe qui embarqua le blessé et l’infirmier, enveloppés aussi bien que possible dans les toiles cirées. Au moment du départ, un paquet de Milit fut lancé à travers la porte, hommage de la marine au courage des chevaliers des cieux ! Le Cant tourna, augmenta la puissance et, avec l’hélice qui se heurtait rageusement à l’eau créant des jets très hauts, après quelques tentatives angoissantes, abaissa la queue pour grimper sur la vague qui, docile comme une mule, le ramena en haut et réussit à décoller. Nous retenions tous notre souffle pour les malheureux passagers, l’un d’eux gravement blessé, ballotés dans le ventre de ce dauphin dansant entre les vagues. Puis ce fut un grondement qui ronronnait calmement sur le fracas de la pluie et un point qui se dissolvait dans les nuages sombres. Nous étions là, sur le quai, trempés jusqu’aux os. Une prière pour le compagnon blessé, un remerciement aux anges qui étaient venus à son secours. Quelqu’un fit circuler les cigarettes.
C’étaient donc eux, ceux du “mammaiuto”.
Nous étions les téméraires qui se cachaient pour surprendre l’ennemi et le tuer par trahison, des héros vaillants prêts à brandir les armes sans pitié. Mais si nous nous trouvions en pleine mer, flottant impuissants sur ce désert d’eau, le cœur se faisait tout de suite tendre et, dans le délire de la soif et de la fin imminente, même les plus durs parmi nous auraient invoqué l’aide de la mère. Et annoncé par son moteur, chant d’espoir que tout marin en danger rêve d’entendre, arriverait le Cant, le “mammaiuto”, noble goéland qui, infatigable, après avoir cherché pendant des heures au milieu de kilomètres et de kilomètres d’espace solitaire et des reflets d’une mer infinie et éblouissante, nous aurait repérés, petits points dans le néant, à battre des bras avec les dernières forces restantes. Et il nous aurait sauvés.

(DEU)
Wir waren bei der Übung an der Isoletta, einem verlassenen Schießstand, der unseren Angreifern jedoch wieder zum Üben abseits interessierter Blicke diente. Alles verlief wie bei einer echten Mission: Wir warteten auf die Nacht und hoben im Dunkeln, nur auf ein paar elektrische Lichter angewiesen, die Torpedos auf das Deck und ließen sie dann in die hermetischen Zylinder gleiten. Ein einfaches Manöver, aber kompliziert in der Ausführung: Diese Monster wogen einen heiligen Gott … nicht umsonst hatte jemand sie aufgrund ihrer Größe und ihres Gewichts bereits „Schweine“ getauft!
Als wir zu einem Kampfeinsatz gingen, zogen wir sofort los, um in der folgenden Nacht in Angriffsposition zu sein. Wenn wir tagsüber ankamen, mussten wir uns unten verstecken und auf den Sonnenuntergang warten.
Während der Übung reichten jedoch ein paar Stunden Navigation aus, um die kleine Insel zu erreichen, ein Transfer, der immer im langsamen Eintauchen erfolgte, um das Unterfangen mit dem richtigen Geist anzugehen.
Gegen drei Uhr erreichten wir das Ziel und setzten die Schweine ins Wasser. Ein altes Handelsschiff, das wir zu Ehren von Mr. Churchill, der uns so sehr fürchtete, Winston nannten, diente als Ziel, sorgfältig überwacht von Marines, die die Aufgabe hatten, unsere herannahenden Männer zu überraschen.
Um den „Hühnerstall“ zu schützen, waren zwei Anti-Torpedonetze, identisch mit denen, die unsere Männer in Alessandria getestet hatten, hundert Meter vom Ziel entfernt angebracht. Zwanzig Zigaretten waren der Preis für diejenigen, denen es gelang, die „Pillen“ unter dem Kiel zu platzieren, oder für diejenigen, die es schafften, sie daran zu hindern.
Aber das war eine zu dunkle und stürmische Nacht, ein Szenario, das perfekt auf die Angreifer zugeschnitten war, die unter Wasser, in einer Tiefe von fünf Metern, verdeckt von einem starken Regen, der ideal war, um unerwünschte Spuren und Luftblasen zu verbergen, sicherlich die Oberhand gewonnen hätten. Und sie hatten den Trumpfpreis bereits geteilt!
Zu diesem Zeitpunkt brachte der Kommandant eines seiner Systeme heraus, um das Spiel interessanter zu machen, und als Begrüßungskomitee schickte er ein paar Raider des anderen Teams unter Wasser, um Wache zu halten und auf ihre Kollegen zu warten, um sie auch unter Wasser zu behindern Fäuste daran gehindert, ihre Pflicht ungestört zu erfüllen.
Was in dieser stürmischen Nacht geschah, ist nie verstanden worden. Tatsache ist, dass einer der Torpedos in dem Durcheinander über die Person rutschte, die den Sprengkopf an den Kielflossen befestigte, was zu einem verstümmelten Bein führte.
Wir waren zwei Stunden schneller Navigation von der Basis entfernt, der Himmel sah höllisch aus und das Meer war nicht anders, ein Fegefeuer, mit der Unmöglichkeit, sich an der Oberfläche fortzubewegen. Der Verwundete war blass wie ein verwaschenes Laken, hatte bereits eingefallene Augen und blutleere Lippen. Mit der Oberschenkelarterie, die nicht aufhörte, Blut zu spucken, war er vor uns und machte die Seele wie ein Hund. Es war notwendig, sofort chirurgisch einzugreifen, sonst wäre dies seine letzte Stunde.
Von der Basis aus teilten sie uns mit, dass ein CANT geschickt werden würde, aber der Kommandant war skeptisch und äußerte kopfschüttelnd starke Zweifel, überzeugt davon, dass bei solch widrigem Wetter niemand die Flucht ergriffen hätte und noch weniger wäre es ihm möglich gewesen wegwerfen.
Und stattdessen hatte sich im Morgengrauen, von einem bösen Wind gepeitscht, in der Wand aus kompakten Wolken, die wie ein Berghang aussah, ein Spalt geöffnet, und von dort kroch zwischen einer Wolke nach der anderen ein kleines silbernes Flugzeug herein. Vor dem Himmel, so schwarz wie nur der Teufel sein kann, und den Sonnenstrahlen, die sich auf einem von Menschenhand geschmiedeten Flügel spiegelten, erschien uns dieses leuchtende Zeichen wie ein Engel, eine mystische Vision, die mir immer noch ein Gefühl für das Göttliche vermittelt. Selbst für die harten Häute der Räuber war es ein Anblick, stramm zu stehen.
Nach zwei Kurven über uns gab er Lichtsignale ab, um zu vermeiden, allzu nervösen Flugabwehrgeschützen zu begegnen, und dann sahen wir, wie er sich den Wellen anpasste, sich senkte und mit der Beherrschung einer Möwe dahingleitete, wobei er einem Seitenwind trotzte, der in der Lage war, einen zu bewegen Schlachtschiff und lassen Sie sich dann nieder, als ob auf der rechten Welle nichts einfacher wäre.
Ein Matrose seufzte: „Mammamia!“
Nach Abschluss der Notwasserungsübung, dem Ein- und Ausschalten des Motors drehte sich das Wasserflugzeug auf uns zu und näherte sich mit einem letzten Schub dem Pier. Als es sich auf den Wellen hob und senkte, öffnete sich an seiner schwingenden Seite eine Luke und der Anblick eines lächelnden jungen Mannes winkte uns zu. Der weiß geschriebene Name auf dem Schwanz blieb mir im Gedächtnis hängen: „mammaiuto“.
Unter dem Regenguss und der Wolke eines bleiernen Himmels, die uns zermalmen wollte, setzten wir ein Rettungsboot zu Wasser, das den Verwundeten und die Krankenschwester, so gut es ging, in Ölzeug gehüllt, an Bord nahm. Zum Abschied wurde ein Paket Milit durch die Luke geworfen, eine Hommage der Marine an den Mut der Ritter der Lüfte!
Der Cant drehte sich, erhöhte die Leistung, und während der Propeller heftig mit dem Wasser kollidierte und sehr hohe Strahlen erzeugte, senkte er nach ein paar quälenden Versuchen sein Heck, um auf die Welle zu klettern, die ihn, fügsam wie ein Maultier, wieder hochzog und es schaffte abheben . Wir hielten alle den Atem an angesichts der unglücklichen Passagiere, von denen einer schwer verletzt wurde und in den Bauch des zwischen den Wellen tanzenden Delphins geworfen wurde. Dann war es ein Grollen, das leise über das Rauschen des Regens grollte, und ein Fleck, der sich in den dunklen Wolken auflöste.
Da waren wir, bis auf die Knochen durchnässt, auf dem Dock. Ein Gebet für seinen verwundeten Kameraden, Dank an die Engel, die ihm zu Hilfe gekommen waren. Jemand reichte die Zigaretten herum.
Sie waren es also, die „Mammaiuto“.
Wir waren die Draufgänger, die sich versteckten, um den Feind zu überraschen und ihn auf heimtückische Weise zu töten, tapfere Helden, die bereit waren, gnadenlos Waffen zu schwingen. Aber wenn wir uns mitten im Meer befanden und hilflos in dieser Wasserwüste trieben, wurde unser Herz sofort zart, und im Delirium des Durstes und des bevorstehenden Endes hätten selbst die Härtesten unter uns die Hilfe ihrer Mutter angefleht. Und von seiner Maschine angekündigt, ein Lied der Hoffnung, von dem jeder Seemann in Gefahr träumt, es zu hören, würde der Cant ankommen, der „Mammhelp“, die edle Möwe, die unermüdlich, nachdem sie stundenlang inmitten von Kilometern und Kilometern einsamer Welten gesucht hatte, … die Spiegelungen eines unendlichen und blendenden Meeres, er hätte uns gesehen, kleine Punkte im Nichts, wie wir mit letzter Kraft mit den Armen wedeln.
Und er hätte uns gerettet.

(ESP)
Estábamos en el ejercicio en Isoletta, un campo de tiro abandonado pero que una vez más se utilizó para permitir que nuestros asaltantes practicaran, lejos de las miradas interesadas. Todo transcurrió como si se tratara de una verdadera misión: esperamos a que cayera la noche y, a oscuras, contando sólo con unas pocas luces eléctricas, subimos los torpedos a cubierta y luego los introdujimos en los cilindros herméticos. Una maniobra simple de decir pero complicada de ejecutar, estos monstruos pesaban un Dios santo… ¡no en vano alguien ya los había bautizado “cerdos”, dado su tamaño y peso!
Cuando íbamos a una misión de combate, nos movíamos inmediatamente para estar en posición de ataque la noche siguiente. Si llegábamos de día, teníamos que escondernos en el fondo y esperar a que pasara el atardecer.
Durante el ejercicio, sin embargo, bastaron un par de horas de navegación para llegar a la pequeña isla, traslado que se realizó siempre en lenta inmersión para afrontar la empresa con el ánimo adecuado.
Alrededor de las tres llegamos al objetivo y metimos los cerdos en el agua. Un viejo barco mercante, al que habíamos apodado Winston en honor al Sr. Churchill que tanto nos temía, sirvió como objetivo, cuidadosamente vigilado por marines encargados de tomar por sorpresa a nuestros hombres que se acercaban.
Para proteger “el gallinero” había dos redes antitorpedos, idénticas a las probadas por nuestros hombres en Alessandria, colocadas a cien metros del objetivo. Veinte cigarrillos fueron el premio para quienes lograron colocar las “pastillas” debajo de la quilla o para quienes lograron impedir que lo hicieran.
Pero era una noche demasiado oscura y tormentosa, un escenario perfectamente diseñado para los atacantes que, bajo el agua, a cinco metros de profundidad, ocultos por una fuerte lluvia ideal para ocultar estelas no deseadas y burbujas de aire, seguramente habrían prevalecido. ¡Y ya se habían repartido el premio de triunfo!
Fue entonces que el Comandante sacó uno de sus sistemas para hacer más interesante el juego y como comité de bienvenida envió a un par de asaltantes del otro equipo bajo el agua para hacer guardia, esperando a sus compañeros, para estorbarlos, incluso bajo el agua. puños, de cumplir con su deber sin ser molestados.
Nunca se ha entendido lo que ocurrió aquella noche de tormenta. El caso es que en medio de la confusión uno de los torpedos patinó sobre la persona que estaba fijando la ojiva explosiva a las aletas de la quilla, provocándole una pierna destrozada.
Estábamos a dos horas de navegación rápida desde la base, el cielo parecía un infierno y el mar no era diferente, un purgatorio, con la imposibilidad de avanzar en la superficie. El herido, pálido como una sábana descolorida, tenía ya los ojos hundidos y los labios sin sangre. Con la arteria femoral que no dejaba de escupir sangre, él estaba ahí frente a nosotros haciendo el alma como un perro. Era necesario intervenir quirúrgicamente en el acto, o ésta sería su última hora.
Desde la base nos informaron que se enviaría un CANT, pero el Comandante se mostró escéptico y meneando la cabeza expresó fuertes dudas, convencido de que nadie hubiera levantado el vuelo con un clima tan adverso y menos le hubiera sido posible. deshacerse.
Y en cambio, al amanecer, azotado por un viento maligno, en el muro de nubes compactas que parecía la ladera de una montaña, se había abierto una grieta y de allí, entre nube tras nube, se deslizaba un pequeño avión plateado. Contra el cielo tan negro como sólo el diablo puede serlo, los rayos del sol reflejados en un ala forjada por el hombre, ese signo luminoso se nos apareció como un ángel, una visión mística que todavía hoy me da un sentido de lo divino. Incluso para las pieles duras de los asaltantes era un espectáculo digno de atención.
Después de dos vueltas por encima de nosotros, lanzó señales luminosas para evitar toparse con unos cañones antiaéreos demasiado nerviosos y luego lo vimos alinearse con las olas, descender y planear con la maestría de una gaviota, desafiando un viento lateral capaz de mover una acorazado, y luego establecerse como si nada fuera más fácil en la ola correcta.
Un marinero dejó escapar un suspiro: “¡Mammamia!”
Habiendo completado la práctica de amaraje, encendiendo y apagando el motor, el hidroavión giró hacia nosotros y con un último empujón se acercó al muelle. Mientras subía y bajaba sobre las olas, se abrió una escotilla en su lado oscilante y la vista de un joven sonriente nos hizo señas. Ese nombre escrito en blanco y en la cola se me quedó grabado en la mente: “mammaiuto”.
Bajo el aguacero y la nube de un cielo plomizo que parecía querer aplastarnos, botamos un bote salvavidas que embarcó al herido y a la enfermera, envueltos lo mejor posible en impermeables. Al despedirse, se arrojó por la escotilla un paquete de Milit, ¡el tributo de la marina al coraje de los caballeros del cielo!
El Cant giró, aumentó la potencia y con la hélice chocando furiosamente con el agua creando chorros altísimos, después de unos intentos agónicos, bajó la cola para subirse a la ola que, dócil como una mula, lo levantó y logró despegar . Todos contuvimos la respiración por los desafortunados pasajeros, uno de los cuales resultó gravemente herido, arrojado al vientre de aquel delfín que danzaba entre las olas. Luego fue un estruendo que retumbó silenciosamente sobre el rugir de la lluvia y una mota que se disolvió en las nubes oscuras.
Allí estábamos, en el muelle, calados hasta los huesos. Una oración por su compañero herido, gracias a los ángeles que acudieron en su ayuda. Alguien pasó los cigarrillos.
Entonces eran ellos, los “mammaiuto”.
Éramos los temerarios que nos escondíamos para sorprender al enemigo y matarlo a traición, héroes valientes dispuestos a blandir las armas sin piedad. Pero si nos encontráramos en medio del mar, flotando impotentes en ese desierto de agua, nuestro corazón inmediatamente se enterneció y, en el delirio de la sed y del fin inminente, hasta el más duro de nosotros habría invocado la ayuda de su madre. Y anunciado por su motor, un canto de esperanza que todo marinero en peligro sueña con escuchar, llegaría el Cant, la “mammhelp”, noble gaviota que incansablemente, después de haber buscado durante horas en medio de kilómetros y kilómetros de espacio solitario y los reflejos de un mar infinito y deslumbrante, nos habría visto, pequeños puntos en la nada, batiendo los brazos con las últimas fuerzas que nos quedaban. Y él nos habría salvado.